Disabilità e ammirazione. Quando è lecita?

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Se è vero che alcune persone con disabilità non vogliono essere oggettificate e rese ispirazione con una pratica umiliante ad uso e consumo degli altri, ovvero di chi una disabilità non ce l’ha, è altrettanto vero che può venire spontaneo attribuire un giudizio positivo a coloro che incontrano la disabilità sul loro cammino e vi reagiscono virtuosamente.

È verissimo che reagire a un’avversità si potrebbe definire banale sopravvivenza, ma è altrettanto vero che richiede impegno, forza d’animo e determinazione. Da un lato potremmo dire che per evitare di soccombere, il fatto di rimboccarci le maniche e affrontare ciò che una disabilità ci richiede è un compito dovuto e necessario, un dato di fatto da cui non potremmo sottrarci. Dall’altro lato invece non tutti riescono ad affrontare nel migliore dei modi questo impegno necessario, crollando sotto il peso della fatica, dello scoramento, della vergogna e dello stigma sociale.

Questa eterogeneità assoluta nell’affrontare un’esperienza tanto varia quanto varie sono le condizioni di disabilità, ci mette di fronte a un contesto estremamente complesso al quale è particolarmente arduo cercare di rispondere senza incorrere in soluzioni che potrebbero rivelarsi semplicistiche quanto inadeguate, così come poco rappresentative e condivisibili.

Allo stesso modo, comprendendo da un lato il fastidio di alcuni membri più maturi della comunità disabile, non possiamo ignorare una spontaneità innocente e bonaria nel meccanismo dell’apprezzamento, che non può essere demonizzabile dal momento in cui non è né totalmente conscio né soprattutto accompagnato da cattive intenzioni, così come sappiamo essere associato ad una scarsa cultura di convivenza con la disabilità, che non fornisce gli strumenti per utilizzare un linguaggio adeguato nè premesse consapevoli sul contesto.

Così, muovendoci in un equilibrio precario, cercando di dare il giusto peso a tutti gli attori e le sensibilità del caso, c’è qualcosa che è lecito ammirare nelle persone con disabilità?
Credo di sì, e credo sia quella cosa che di solito si riconosce con il nome di resilienza.

⚠️ Mi è capitato negli ultimi giorni di leggere commenti indignati a proposito della “parola con la R”, che in tutta onestà non ho assolutamente capito. Quindi è possibile che io mi stia per rovesciare addosso un container di merda, ma sono un temerario, o forse un povero inconsapevole e non me ne curo.

Detto questo, cosa si intende per resilienza?
Dicesi resilienza la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici (wiki)

Andiamo con un giro di sinonimi.
È resiliente chi in circostanze avverse riesce a fronteggiare le contrarietà.
A riorganizzarsi di fronte a una difficoltà.
Chi ha la forza di rimettersi in gioco.
Di non farsi abbattere.
Di adattarsi.
Chi si piega ma non si spezza.
O come nel mio caso, chi si spezza, letteralmente, e trova il modo di raddrizzarsi (capita possa talvolta servire la mano provvidenziale di una manciata di chirurghi).

Se c’è qualcosa che può eventualmente essere concepibile ammirare spontaneamente senza scadere però nella pornografia motivazionale, ed è secondo me davvero l’unica cosa, è lo spirito che emerge nel risollevarsi dal trauma. Anche se non per tutti la disabilità è un trauma, non implicitamente (ci sarebbe da aprire una parentesi ma non è questo il giorno). Molto dipende dalla forma di disabilità, dal livello di invalidazione, da quando la disabilità subentra, se è congenità, traumatica, patologica, progressiva. Ma in definitiva la disabilità può essere un trauma, una circostanza avversa, una difficoltà.

Si ammiri la capità di resistere. Alla compromissione biologica come anche all’indifferenza, al pregiudizio, allo sguardo compassionevole. Ricordandosi anche che c’è chi non ce la fa.

Ma una volta accettata, una volta rimesso in gioco, poi fine. Bona. Via.

Fila il discorso?

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