Prepararsi alle paralimpiadi è già vincere?

Sezione in allestimento

Tuttu parte da queste battute di Bortuzzo al gf vip 6

“Prepararsi alle paralimpiadi è già vincere”
“Rimettersi in gioco è la vittoria più grande”
“Non importa il risultato”
“L’importante è il percorso”

A parte che la disabilità – parola che durante sto gf pare sconosciuta – non è qualcosa da vincere, ma al massimo qualcosa con cui imparare a convivere. Rimettersi in gioco dopo un trauma è molto banalmente: sopravvivenza. Si può parlare di vittoria? Con fare sensazionalistico, forse. Ma sarebbe meglio parlare di ripresa, di entropia, di capacità di un sistema di ritrovare il proprio equilibrio. Resilienza se proprio.

Ripetiamolo: quello che fanno gli atleti paralimpici, così come tante altre persone con disabilità è vivere, gareggiare, eccellere con la propria disabilità. Non nonostante. Non vincendo la disabilità. CON.

Cosa vuol dire questa retorica?
A cosa serve? A chi serve? Per chi funziona?

Quello che potrebbe sembrare un benevolo elogio verso chi reagisce bene ad una condizione di indesiderabile svantaggio, è più un fugace momento catartico per sentirci tutti più buoni e incoraggianti nello slancio in cui si fà forza a qualcuno che si pensa abbia bisogno del nostro benestare. Peccato funzioni solo nei casi in cui un semplice incentivo è a sufficienza, che è evidentemente un privilegio di chi ha una disabilità relativamente poco invalidante, una famiglia benestante che lo sostiene, chi crede e investe su di lui e soprattutto, risalto mediatico.

Esaltare UN disabile, comunque performativo e autonomo, passabile come normo-abile, disabile-ma-non-troppo, inconsapevolmente privilegiato è esaltare la disabilità per come vogliamo vederla: un’ispirazione. E prestarsi a questo gioco superficiale da privilegiato, prendere parte a questa narrazione per farsi eleggere nuovo eroe fra i disabili, è una deresponsabilizzante questione di immagine. Puro marketing.

Altra piccola chicca prelibata

Dove stanno le falle in questo discorso?

Nel trattare atleti olimpici e paralimpici in maniera diversa. In un caso, guardi i risultati, nell’altro, la loro storia. Non importa quello che fanno, ma quello che rappresentano.

“Federica Pellegrini ha vinto già solo preparandosi alla gara”
“Di Marcel Jacobs non importa il risultato, è un eroe”
“Gianmarco Tamperi, sei un esempio di forza, hai già vinto”

Può mai avere senso una retorica del genere? Direi di no. È un nonsense.
E allora perché riferendosi a Manuel Bortuzzo, Ambra Sabatini o Bebe Vio una retorica del genere è lecita? Perché i due tipi di atleti non sono trattati – o non si fanno trattare – con la stessa dignità. Proprio per la loro disabilità. Non è che dietro a un elogio corrisponda un valore maggiorato. Anzi. Soprattutto se l’elogio non ha natura d’esistere. È che dagli atleti con disabilità ci si aspetta meno. Non solo perché la prestazione possa essere considerata inferiore, ma soprattutto perché li si guarda per altro.

Dicendo per iperbole che l’atleta paralimpico ha qualcosa in più dell’atleta olimpico, li si carica di un valore aggiunto – che è tutto nella sua storia, in quello che rappresenta per gli altri – che non è un surplus di dignità, ma un di meno. Perché? Perché diventando simbolo, sbiadisce l’atleta e i suoi risultati, nello stesso momento in cui la narrazione guadagna un’ispirazione, un esempio, un eroe da onorare.

Oltretutto, grazie a UN simbolo, un paio di sparuti eroi da ammirare e plaudire, guarda caso sempre passabili, nella cerchia dei quasi-normali, disabili-ma-non-troppo, possiamo sentirci tutti appagati, e lavarci la coscienza senza badare a tutta quella sfilza di disabili senza occasioni nè supporti che non si caga nessuno e di cui nessuno vuole prendersi la briga di parlare. Tanto loro, i poveri stronzi, sono lontani dagli occhi, lontano dal cuore. Danno anche poco fastidio, quindi.

Perchè “il risultato non conta”?

Dire che il risultato non conta, definisce perfettamente il problema: quello che interessa non è il risultato dell’atleta paralimpico, è che partecipi, purché se ne possa parlare. Che si faccia carico della pubblica catarsi, attraverso il cui elogio possiamo sentirci tutti più buoni senza il minimo sforzo, senza impegno. E senza nessuna responsabilità.

Che ispiri. Che sia un esempio. Che dia speranza.
Ma speranza de che??? E soprattutto, a chi?!

Oltretutto. A chi si dice “l’importante è partecipare”? Ai bambini. A chi non si crede possa farcela. E a chi non importa se ce la faccia o meno, perché appunto, è altro quello che ci si aspetta. Dire che prepararsi alle paralimpiadi è già vincere è altra retorica spiccia di cui non c’è bisogno, che distoglie l’attenzione dai reali problemi e dalle responsabilità, e che peraltro non valorizza nè gli atleti paralimpici nè le paralimpiadi. Pura pornografia dell’ispirazione.

E smettiamola di fare i fenomeni che non abbiamo ancora imparato che si chiamano paralimpiadi e non paraØlimpiadi.

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