L’indagine

Quale spazio hanno le persone disabili e neurodivergenti lgbtq+ all’interno delle manifestazioni? Qual è il livello di accessibilità dei pride e delle iniziative ad essi collegate? Quale spazio ha la disabilità nelle iniziative di rivendicazione dell’orgoglio queer? 

SondaPride è la prima mappatura del livello di inclusione della disabilità all’interno dei pride italiani, con lo scopo di rispondere a queste domande. Ho mandato due sondaggi: uno ai partecipanti e uno agli enti organizzatori che compaiono su ondapride.it (una lista dei principali pride italiani), chiedendo di rispondere a quali interventi di accessibilità sono stati riscontrati e previsti per gli eventi organizzati.

Hanno risposto 42 organizzatori su circa 50 e ho ricevuto 161 risposte da partecipanti disabili e neurodivergenti (chi ha un funzionamento neurologico diversa dalla media statistica e rischia sovraccarico sensoriale, come persone autistiche, adhd). Ho indagato il livello di accessibilità in diversi momenti della manifestazione, della comunicazione e il livello di inclusione della disabilità negli interventi e nelle tematiche nelle iniziative correlate al pride. Ne sono usciti un sacco di indicazioni e spunti che spero possano essere uno sprone per gli organizzatori dei prossimi pride e per tutto l’associazionismo lgbtq+ italiano.

SondaPride non nasce come uno strumento di denuncia ma come uno di consapevolezza. Vuole dare un’impressione del presente e della strada che serve fare. La situazione è molto complessa e frammentata. Ci sono realtà virtuose che funzionano piuttosto bene, altre che fanno il minimo indispensabile e alcune ancora che arrancano e sicuramente sottovalutano l’importanza dell’accessibilità e dell’inclusione della disabilità.

Visto che non esiste nessuna organizzazione verticale degli eventi, e che difficilmente nascerà un coordinamento collettivo nazionale, la speranza è che una linea guida da seguire insieme a una raccolta di testimonianze possa spingere gli organizzatori a un miglioramento rapido e repentino. Magari grazie alla collaborazione con le realtà più virtuose che hanno più esperienza, o cercando da subito collaborazione con associazioni di settore. Suonerà retorico, ma serve fare rete. Condividere soluzioni. Ma prima di tutto serve prendere consapevolezza che se non vengono adottate le giuste misure di inclusione, ci sono categorie di persone – già fra le più escluse e isolate – che rischiano di vivere un’esperienza faticosa e frustrante.

Quando riescono a viverla, perchè spesso si vedono costrette a rinunciare. Non a causa delle loro limitazioni, ma di un contesto che non le prevede. Servono misure concrete, non raccomandazioni della serie “prestiamo più attenzione”, “facciamo sentire tuttə inclusə”. Serve rendersi conto che ci sono esperienze che semplicemente non siamo mai stati abituati a prendere in considerazione, complice una società abilista escludente nella quale siamo immersi e di cui non ci rendiamo conto finché non ci vengono fatte delle richieste o ci viene sbattuto in faccia.

I risultati

Grazie ai risultati, è molto chiaro capire dove serve lavorare. Per le disabilità fisico motorie, in alcuni casi non si è ancora raggiunta una totale accessibilità fisica degli spazi, e evidentemente c’è una poca attenzione nella presenza di servizi igienici accessibili. Solo un organizzatore ha pensato a un numero telefonico dedicato da utilizzare durante il corteo e la manifestazione per chiedere assistenza. Negli altri casi, per chi ne avesse bisogno, potrebbe essere molto difficile contattare direttamente il servizio d’ordine per chiedere un aiuto (quando previsto). Sembra esserci una bassissima attenzione per le disabilità invisibili, come per chi ha malattie e dolori cronici e limitate disponibilità energetiche. O per chi rischia un’iperstimolazione sensoriale e chi soffre d’ansia sociale.

Tante persone che spesso si vedono costrette a rinunciare non hanno nemmeno la possibilità di partecipare da casa, visto lo scarsissimo numero di dirette o registrazione dei contenuti (in soli 6 casi). Sembra già ci siamo dimenticatə di cosa voglia dire non poter uscire di casa. E infine sicuramente occorre fare grande attenzione nella comunicazione dell’accessibilità e di comunicare sui social in maniera accessibile. Pochissimi hanno siti web con una sezione apposita dedicata ai servizi di accessibilità, solo 4. Solo 1 su 4 li comunica via social, spesso male. Nella maggior parte dei casi non compare nessuna traccia di servizi di accessibilità, probabilmente perché non previsti.

Un contesto accessibile è fondamentale, e lo è soprattutto quando si parla di intersezionalità. C’è stata una grande proliferazione di questo concetto, soprattutto nel panorama dell’attivismo transfemminista, in particolar modo dall’introduzione del concetto di abilismo (la discriminazione e la svalutazione delle persone con disabilità proprio a causa della loro disabilità) in relazione a quello di omotransfobia (la discriminazione delle persone lgbtqia+) all’interno del ddl Zan. Se è vero che si è iniziato infatti a sottolineare quanto le rispettive battaglie godrebbero di un’unione delle forze, é altrettanto vero che spesso l’intersezionalità è una bella parola che trova facilmente posto in tanti sontuosi discorsi ma non si traduce poi in pratica. Ad esempio se il contesto nel quale si invoca l’intersezionalità poi non risulta accessibile alle persone disabili o la cui mente funziona in maniera atipica rispetto alla media.

Cosa possiamo dire a proposito della disabilità e dell’ intersezionalità come argomento all’interno dei discorsi politici? Circa la metà dichiara di aver previsto uno spazio per l’argomento, ma pochi dichiarano di avere al loro interno o di aver invitato attivistə disabili, neurodivergenti a prendere parola. Allo stesso modo ci tengo a sottolineare quanto l’aspetto della sessualità e della disabilità sia poco trattato (in soli 3 casi su 42 risposte), in un contesto associativo lgbtqia+ in cui persone disabili sono presenti e hanno bisogno di sentirsi argomento d’interesse e rivendicare spazio. Dico questo perché secondo le ultime ricerche (abili di cuore del 2007 e quella sulle multidiscriminazioni del 2020 della FISH) le persone disabili lgbtq+ lamentano disinteresse, body fascism (una forma di discriminazione nei confronti dei corpi non conformi o che non rientrano in un ideale performativo) e una generica mancanza di occasioni di incontro da parte del mondo queer.

Se spesso ci si dimentica infatti, che le persone disabili hanno un’identità sessuale e hanno bisogno come chiunque altro di esprimerla e di trovare spazio per rivendicare e sperimentare la propria affettività. La necessità di inclusione è assoluta, ma non tuttə lə partecipanti appartengono al mondo lgbtqia+, che conferma quanto sia importante rendere i pride accessibili non solo per i membri della comunità, ma anche per chiunque voglia essere alleatə.

La maggior parte dellə partecipanti tra l’altro è statə a più di un pride. Che significa anche che si sottopone a più disagi pur di partecipare a questo genere di manifestazioni. Persone disabili e neurodivergenti che sono parte integrante del mondo queer. Questo dovrebbe bastare per farci intuire quanto queste persone trovino generalmente ostacoli per partecipare a una vita associativa o comunitaria come chiunque altrə e quanto bisogna fare per includerle nelle abituali attività e iniziative e permettere loro un’esperienza dignitosa e soddisfacente come chiunque altrə. Così come di sentirsi rappresentate, cosa che non avviene a buona parte dei partecipanti.

Spero questo lavoro possa sottolineare l’importanza di mettere in atto un’inclusione necessaria, spesso ignorata e data per scontato, un concetto che la comunità lgbtqia+ conosce benissimo. Che possa essere da sprone per lavorare sull’accessibilità dei pride dal principio, già dalle fasi di progettazione. Così da rendere il processo stesso per arrivare agli eventi finali accessibile per le persone disabili e neurodivergenti stesse, che potrebbero e vorrebbero partecipare alle varie fasi ma che spesso trovano difficile, frustrante e deleterio riuscire ad adattarsi alle modalità e ai criteri tipici di abilità e capacità. Più testimonianze infatti provengono da persone che hanno collaborato nell’organizzazione dei pride, che affermano che spesso l’accessibilità venga delegata a loro.

Non si pretende che eventi organizzati da piccole realtà possano avere l’intera gamma di interventi possibili, ma è altrettanto vero che l’accessibilità è un modus operandi, e non una serie di accorgimenti a cui trovare soluzione all’ultimo. Se rispondere alle esigenze di accessibilità è tanto complicato, è semplicemente perché non è nella nostra cultura pensare in maniera accessibile. Non siamo abituatə a farlo. Così come non siamo abituatə a pensare alla presenza di persone disabili e neurodivergenti. Per questo è fondamentale iniziare a pensare da subito, in partenza, a eventi pensati per chiunque. E non mi riferisco solo ai pride, ma alle iniziative dell’associazionismo in generale. Per chi può avere difficoltà a partecipare a causa di un contesto strutturato senza tenere a mente le esigenze di tuttə, ma anche per chi non può partecipare fisicamente. E in questo caso non servono risorse esagerate, ma la volontà politica di includere chiunque.

Quello dei pride è naturalmente un esempio simbolico di come sia necessario pensare l’intero associazionismo in chiave intersezionale e accessibile. Perché è bene ripeterlo: non esiste intersezionalità senza accessibilità.

All’interno della comunità lgbtq+ ci sono persone disabili e neurodivergenti che sono troppo spesso escluse, le cui istanze non vengono ascoltate o accolte. Abbiamo bisogno di accoglienza, abbiamo bisogno di interesse. Abbiamo bisogno di safe places.

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