Si sono da poco conclusi i Giochi olimpici invernali di Beijing 2022 e indubbiamente ci hanno lasciato a bocca aperta, un alternarsi di prestanza e prodezze. Ma ora inizia il vero spettacolo: è il momento dei Giochi paralimpici, che si apriranno a Pechino il 4 marzo. Una sfilata di supereroi, uno show straordinario in cui nessuno esce perdente, che ci ricorda quanto, troppo spesso, siamo ingrati verso il destino e che niente è impossibile se lo si vuole davvero. Che non ci sono scuse per farsi abbattere dalle difficoltà nella vita.
Ecco una classica sequenza di esternazioni a cui siamo abituatə e in cui non troviamo niente di strano, perché sono all’ordine del giorno quando si tratta di queste manifestazioni sportive. Non ci accorgiamo che possano ledere la dignità di persone con disabilità, eppure lo fanno, eccome. Ma in che modo? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
No, le paralimpiadi non servono a ricordarti quanto troppo spesso siamo ingratə verso il destino. Non servono a ricordarti che c’è chi sta peggio in modo da spingerti a goderti la vita dando il giusto peso alle piccole cose. Non servono per far pensare che «se ce la fa lui allora posso farcela anche io». Non sono da sfruttare per provare che «non ci sono scuse». Di cosa poi. Non sono da usare per la retorica tossica del «se vuoi puoi». Le paralimpiadi non servono a ricordarti quanto tu non debba lamentarti delle tue piccole sventure quotidiane. Prima di tutto perché ti assicuro che anche chi ha una disabilità si lamenta, attività peraltro piacevolmente ricreativa, a volte anche soddisfacente, oserei dire divertente.
Il fatto è questo: in quanto spettacolo, le paralimpiadi vengono usate per passare dei messaggi. Positivi, anzi positivissimi. Tendenzialmente di speranza, di empowerment, un fritto misto di elogi randomici e «ricordati che».
Dove sta il problema, potreste chiedermi. Il problema è che si tratta di messaggi a uso e consumo di chi una disabilità non ce l’ha. Si chiama inspiration porn, pornografia motivazionale.
Ne parlò per la prima volta nel 2012 Stella Young, attivista disabile australiana, in una sua Ted Talk, definendola come l’oggettivizzazione delle storie delle persone con disabilità. Esattamente come si fa con un corpo femminile ridotto a oggetto e usato per veicolare messaggi a suo discapito, delle persone con disabilità si usano le storie di vita, trasformandole in messaggi di speranza e di pubblica catarsi, in esempi di come superare le difficoltà. Peccato che la disabilità non sia il metro di misura dello sfigometro. E tante, tantissime persone disabili non ci stanno a vedere come in un certo contesto quello che rappresentano per gli occhi non disabili venga sfruttato, per poi dimenticarsene appena la funzione di catarsi si è esaurita.
A tante persone disabili non piace, ma evidentemente non a tutte, anzi. C’è a chi sentirsi ispirazione piace da morire e non vede l’ora di ergersi a esempio di vita, facendosi portavoce di resilienza. È il caso di alcunə atletə paralimpichə che nel diventare ispirazione ritrovano un vero e proprio ruolo sociale che pensavano perduto con il sopraggiungere di una compromissione fisica. E così, il semplice fatto di essersi rimessi in gioco diventa un distintivo, il loro superpotere. Supereroi per i quali non importa il risultato, perché già il rimettersi in gioco è la vittoria più grande, perché prepararsi alle paralimpiadi è già vincere.
Una retorica che fa acqua da tutte le parti, buona solo per chi vuole un facile applauso o per chi effettivamente si sente un eroe già solo per aver affrontato l’impresa di superare un momento traumatico. Ma dove sta la falla in questo discorso? Nel trattare atletə olimpichə e paralimpichə in maniera diversa. In un caso, guardi i risultati, nell’altro, la loro storia. Non importa quello che fanno, ma quello che rappresentano.
«Federica Pellegrini ha vinto, già solo preparandosi alla gara». «Di Marcel Jacobs non importa il risultato, è un eroe». «Gianmarco Tamperi, sei un esempio di forza, hai già vinto». Frasi senza senso che però acquistano significato se il soggetto ha una disabilità. Non solo perché da atletə disabili ci si aspetta meno, ma soprattutto perché lə si guarda per altro. Il loro eroismo non viene dal risultato. Non ci si accorge che chiamarli “supereroi” è esattamente come parlare di loro come di “ragazzə speciali”, un eufemismo inutile che anziché aggiungere valore, diminuisce la dignità di chi affronta la propria vita convivendo con una compromissione. Ed è esattamente questo che fanno lə atletə paralimpichə, così come tante altre persone con disabilità: vivono con la propria disabilità. Non nonostante. Non superandola. Con.
Questo contributo è apparso su La Falla del Cassero (link esterno)